La birra nasce con l’inganno. Tutte le birre. Potrebbe sembrare una battuta, e in parte ovviamente lo è, ma sta di fatto che il chicco d’orzo che inizia a germinare pensando, come vuole la natura, di iniziare il processo che lo trasformerà in spiga non si aspetta certo di passare all’essiccazione e diventare, invece, malto. Un inganno dunque per il chicco, in compenso una magia per gli esseri umani che amano la birra. Uno dei pilastri irrinunciabili della birra è proprio il malto d’orzo, una materia prima dunque che non si trova in natura ma che necessita di una trasformazione fisica e chimica. La scoperta della maltazione è antichissima, probabilmente risalente al Neolitico e di poco successiva all’agricoltura. I nostri antenati si accorsero per caso che i chicchi d’orzo raccolti in campo, se bagnati si ammorbidivano e risultavano più dolci. Il passaggio successivo fu appunto quello di creare degli impasti con quei chicchi e cuocerli per una primordiale forma di pane. Dal pane alla birra, infine, fu il breve e successivo passo…
Le “ragioni” dell’orzo
Le “fortune birrarie” dell’orzo, rispetto ad esempio a quelle di altri cereali come il frumento o l’avena, sono dovute principalmente a due ragioni. La prima è una questione agronomica ovvero l’orzo è il cereale che meglio si adatta a climi diversi e la sua potenziale dislocazione geografica è pertanto molto più ampia rispetto, ad esempio, al frumento; in secondo luogo l’orzo possiede un elevato contenuto di amido e di enzimi, caratteristiche che permettono al maltatore, ossia colui che trasforma l’orzo in malto, di ottenere percentuali di zuccheri più importanti. Zuccheri che saranno fondamentali nella fase di produzione della birra stessa.
Queste caratteristiche hanno fatto sì che questo cereale antichissimo, forse il primo a essere “addomesticato” dall’uomo, sia ancora oggi il più usato a livello mondiale nella produzione della birra. E che, per lunghi secoli, praticamente ogni birrificio avesse la propria malteria. Attualmente, sono invece pochi i birrifici che ne possiedono una interna. Andando a memoria l’olandese Bavaria e Pilsner Urquell in Repubblica Ceca. Le malterie moderne invece, lavorano per più committenti anche quando sono di proprietà di un birrificio. Come è il caso dell’italiana Saplo di Pomezia nata nel 1964 su input di tutti o quasi i birrifici dell’epoca e oggi controllata al 90% dalla sola Birra Peroni. Saplo è una delle due grandi malterie italiane, l’altra è Agro Alimentare Sud di Melfi. Il grosso delle sue circa 42mila tonnellate di malto prodotto all’anno finiscono ovviamente nelle caldaie di Birra Peroni, ma non tutte. Agro Alimentare, che di tonnellate ne produce circa 36mila, ha invece diversi clienti: grandi come Heineken Italia e di dimensioni più ridotte come il birrificio Baladin. La produzione annua italiana si aggira insomma poco sopra le 75mila tonnellate. Una cifra considerevole, ma non sufficiente a soddisfare tutta la domanda nazionale che è di circa 170mila tonnellate, e decisamente lontana da quelle delle principali nazioni produttrici: nell’ordine Francia, Germania e Regno Unito.
«Il malto italiano oggi garantisce circa il 40% del fabbisogno nazionale», ci spiega Michele Cason, attualmente presidente di AssoBirra ma in questo caso più nel suo ruolo di membro del Cda di Saplo. «Ma va detto che la produzione è cresciuta, nel 2009 eravamo attorno alle 59mila tonnellate, e che a fronte di una domanda in aumento le malterie investono sicuramente nelle loro capacità produttive».
Anche perché il malto italiano è di ottima qualità. «Le malterie italiane – riprende Cason – hanno sempre storicamente investito nella selezione varietale cercando di dare indicazioni agli agricoltori su quale tipo di orzo potesse dare i risultati migliori. La nostra è una produzione di orzo distico, per lo più primaverile e di provenienza dalle regioni centro-meridionali della Penisola. Il clima di queste zone si presta a una semina invernale di quelle varietà che nel centro Europa possono essere seminate solo nei mesi più caldi: il risultato è un’ottima materia prima che gli agricoltori amano coltivare perché spunta prezzi migliori e ha clienti certi».
Va detto, infatti, che il 95% circa dell’orzo coltivato finisce nel settore della zootecnia. Quello destinato alla birra è praticamente, per usare le parole dello stesso Cason, “una chicca”. Ma di quale malto d’orzo stiamo parlando? Già perché di malti d’orzo ne esistono parecchi e con proprietà molto diverse tra loro. Partendo dallo stesso chicco ma cambiando temperature e tempi di essiccazione potremmo avere malti chiari, come il Pilsen che è di gran lunga il più utilizzato dai birrifici, ma anche più scuri come il malto pale ale, il munich o il vienna. Malti caramello, come i vari Crystal, per i quali invece dell’essiccazione si procede direttamente a una tostatura che conferisce, per l’appunto, note di caramello al malto. E poi c’è la famiglia dei malti colorati o tostati come il biscuit o brown, il chocolate e il black spesso usato in percentuali minime per il suo potere colorante. Perché, lo si sa tutti ma ogni tanto è bene ripeterlo, il colore della birra che si ammira nel bicchiere è dato dal colore del malto che si produce nella malteria. L’unità di misura del colore ha la sigla EBC (European Brewery Convention) e il range parte da un 4 Ebc per poter arrivare fino a oltre 1000.
I malti speciali
Se i malti chiari o quelli ambrati sono anche definiti “malti base”, tutti gli altri si raccolgono sotto l’ombrello dei cosiddetti “malti speciali”. Sempre più richiesti a dire il vero con il moltiplicarsi dei birrifici artigianali in tutto il mondo che stanno spostando l’attenzione dei consumatori dalle classiche lager chiare agli innumerevoli stili birrari storici o innovativi di cui il mondo della birra dovrebbe andare sempre fiero. «La richiesta di malti speciali è effettivamente in crescita», spiega Michele Cason. «Alcune aziende come la tedesca Weyermann hanno tradizionalmente un catalogo molto ampio di questi malti speciali, tuttavia pure in Italia qualcosa si sta muovendo. Agro Alimentare ha ricominciato una decina d’anni fa a produrre malti speciali, Saplo ci sta riflettendo seriamente. Il problema sono ovviamente i quantitativi che devono giustificare l’investimento e il problema italiano è quello di una grande frammentazione delle richieste dovuta alle dimensioni medie del birrificio artigianale. Ma siamo ottimisti per il futuro…». Ovvero quando dalla moltitudine di micro si distingueranno dei medi in grado, da un lato, di mantenere varietà produttiva e, dall’altro, di lavorare su quantità più importanti di malto.
«Già adesso comunque siamo in grado di trasformare in malto l’orzo che ci viene conferito e garantire che quel malto è proprio dell’orzo ricevuto», conferma il presidente di AssoBirra. «A fronte di un conferimento di circa 40 ettari le malterie possono fare un singolo batch e identificare pertanto la provenienza». Insomma, non saranno “sartoriali” ma non sono nemmeno quei “golem” che si potrebbe sospettare. Le malterie italiane già oggi maltano anche il frumento, cereale “minore” rispetto al fratello orzo, ma importante per certe tipologie come le weizen.
Anche perché, sebbene l’orzo costituisca il pilastro irrinunciabile, non è l’unico cereale che può finire nel nostro bicchiere di birra. Weizen d’origine bavarese e witbier natie delle Fiandre del Belgio, ne prevedono grosse quantità. Differenziandosi solo sulla maltazione o meno. Ma negli Stati Uniti, e di conseguenza ora anche in Europa, la segale gioca la sua presenza, nel Regno Unito, soprattutto in Scozia, l’impiego dell’avena fa parte della tradizione delle oatmeal stout e conferisce particolare morbidezza alla birra prodotta. In Italia i birrifici artigianali hanno rispolverato un cereale antico ma sempre presente come il farro, ma pure il cosiddetto “grano arso” ovvero quei chicchi che restavano sul campo dopo la bruciatura delle stoppie e che i contadini raccoglievano per fare il pane in tempi di povertà vera. E, ancora, quei succedanei che la legge italiana prevede impiegabili nella produzione di birra per un limite del 40%. Sono fondamentalmente il riso e, soprattutto, il mais impiegati spesso per abbattere i costi di produzione ma considerati utili anche per “snellire” il profilo organolettico della birra.
In buona sostanza qualsiasi fonte di amido trasformabile in zuccheri necessari a far partire la fermentazione alcolica potrebbe essere impiegata nella produzione di birra. In Italia si ricorre in qualche caso alle castagne ad esempio, ma l’orzo resta il “re della festa”. A lui sono affidati i destini di praticamente tutte le birre del globo ed è talmente riconosciuto come tale che i birrifici ricorrono spesso alla dicitura “100% malto d’orzo” per imprimere un valore aggiunto alla propria birra. Un valore d’immagine certo, ma anche un valore commerciale considerato che le 100% orzo sono normalmente più costose delle loro sorelle.
Adeguate risorse finanziarie
A fronte dunque dell’intramontabile successo dell’orzo e della crescita produttiva, resterebbe da chiedersi perché non ci sono più malterie in Italia. Ci sono ovviamente. Gli esempi che per primi possono essere fatti sono il Cobi, che dovrebbe rifornire i birrifici marchigiani conferitori, e la micromalteria dei Mastri Birrai Umbri. Ma, di norma, una malteria si regge su un’economia di scala e pertanto i volumi sono decisivi per la sua sopravvivenza. «È molto più difficile fare un buon malto che una buona birra, nella maggior parte dei casi», conclude Cason. «E una micromalteria costa tanto se non di più di una microbirreria. Pertanto è più rischioso improvvisare e servono adeguate risorse finanziarie. Poi c’è da dire che la malteria è più legata al mondo agricolo, mentre il birrificio maggiormente a quello della trasformazione, della vendita ed eventualmente, come nel caso dei brewpub, della ristorazione in senso lato.
Non è un caso se oggi le più grandi malterie del mondo si reggono su cooperative agricole».
Insomma, maltare potrebbe sembrare dopotutto un’operazione semplice, quantomeno meccanica, e naturalmente siamo distanti anni luce dalle operazioni manuali di secoli se non millenni fa, ma non è un mestiere dove si può improvvisare. La qualità del malto si riflette direttamente nella qualità della birra che si ordina al bancone e sebbene questi ultimi anni siano stati appannaggio quasi completo dei luppoli e delle loro mille differenze d’impiego, da amaro e da aroma tanto per sottolineare le due “grandi famiglie”, raccontati, descritti e quasi idolatrati da birrai e consumatori, l’umile malto d’orzo mantiene il suo ruolo fondamentale. Che è quello di “spina dorsale” della birra. Un ruolo magari meno eclatante del “germoglio rampicante”, ma un ruolo forse ancora più portante.