di Maurizio Maestrelli
Inutile girarci intorno. È l’argomento sul quale la comunità internazionale della birra chiacchiera e si infervora maggiormente. Sia a livello di appassionati, al pub come nei social network, sia a livello di professionisti del settore, nei meeting di lavoro come nella pausa caffè. A chi tocca la prossima volta? Quale birrificio artigianale venderà alla multinazionale? E quale multinazionale farà la prossima mossa? E i fondi di investimento? Che ruolo giocano sullo scacchiere mondiale?
Acquisizioni e fusioni
È un rumore incessante, una conversazione che si protrae tra ipotesi, voci di corridoio, anticipazioni riservate, trattative che sembrano sul punto di chiudersi, annunci inaspettati e annunci talmente previsti da non far quasi più notizia. Eppure la storia della birra ha vissuto altre volte queste fasi, basti pensare all’ingresso di Heineken in Italia con l’acquisizione di Dreher (1974), quello di Carlsberg con il 50% di Birra Poretti (1982) e, a livello internazionale, all’acquisizione del birrificio canadese Labatt da parte del gruppo belga Interbrew (1995) oppure a quello, tutto brasiliano, che portò Brahma a controllare Antarctica (1999). Insomma, verrebbe da dire, niente di nuovo sotto il sole tuttavia la scossa di terremoto che ha avuto come epicentro la città americana di Chicago nel 2011, quando il colosso AB InBev acquistò il noto birrificio artigianale Goose Island presenta delle caratteristiche diverse da tutte quelle che sono precedute.
È il quadro generale, infatti, a essere cambiato. Il passo fatto dal leader del mercato mondiale, figlio tra l’altro di tutta una serie di acquisizioni e fusioni precedenti, ha segnato per la prima volta l’ingresso di una multinazionale nel ristretto ma arrembante mondo della birra artigianale. Un mondo che stava crescendo a ritmi sostenuti (negli States la crescita a doppia cifra per le craft breweries è andata avanti per anni), erodendo mercato proprio ai big storici del settore. Un primo passo che ha segnato davvero uno spartiacque. Da quel momento in poi, infatti, le acquisizioni dei “piccoli” da parte dei “grandi”, e con questa definizione si deve intendere in primis i grandi gruppi birrari ma nel novero vanno inclusi anche grandi investitori finanziari e perfino gruppi internazionali fino a qualche anno fa esclusivamente rivolti al mondo del vino o dei liquori, hanno subito un’accelerazione importante.
Lo scenario internazionale
L’assoluta protagonista di questa fase storica del mercato è decisamente AB InBev perché da un lato ha messo a segno i cosiddetti “grandi colpi di mercato” con l’acquisto di Anheuser Busch e di Sab Miller, ma dall’altro ha realizzato una raffica di “piccoli” acquisti in diverse parti del mondo.
Negli Stati Uniti, in pochissimo tempo, sono entrati a far parte del gruppo belgo-brasiliano 10 Barrel, Elysian, Breckenridge, Four Peaks, Wicked Weed. Il gruppo si è spinto anche nel Regno Unito rilevando il giovane birrificio londinese Camden Brewery, in Belgio con Bosteels, in Italia con Birra del Borgo, in Cina con Boxing Cat, in America Latina con l’acquisizione delle brasiliane Cervejaria Colorado e Cervejaria Wals e del principale birrificio artigianale colombiano Bogota Beer Company. L’elenco potrebbe pure proseguire a lungo, ma questo basta a rendere l’idea.
E se AB InBev ha tracciato il percorso era logico aspettarsi che gli altri non stessero a guardare troppo a lungo. Heineken ha preso il controllo della californiana Lagunitas che, a sua volta, ha rilevato altri birrifici americani, e ha fatto acquisti in altri continenti, il gruppo belga Duvel Moortgat ha prima acquistato in toto l’americano Boulevard, poi una buona fetta di Firestone Walker, gli spagnoli di Mahou San Miguel si sono presi una quota del sempre americano Founders, mentre i giapponesi di Sapporo hanno ottenuto il controllo totale dello storico birrificio di San Francisco, considerato una sorta di “padre nobile” della rivoluzione artigianal-birraria, Anchor. A tutti questi movimenti si devono poi aggiungere altri, diciamo così, non interni al mondo birrario come quello che ha visto il colosso del vino Constellation Brands inglobare prima Ballast Point e poi Funky Buddha e i sempre più numerosi fondi d’investimento che sempre più appaiono nuotare voraci nel mare agitato della birra mondiale come tanti piranha nel Rio delle Amazzoni.
Insomma, al ventennio e più di proliferazione indisturbata di birrifici artigianali in ogni angolo del globo sembra oggi di essere arrivati a una fase di acquisti, parziali o totali, dei suddetti. E le ragioni del fenomeno sono molteplici…
Lo scacchiere Italia
Ma, prima di cercare le plausibili ragioni del fenomeno, è bene ricapitolare anche cosa è successo recentemente nel Bel Paese. Anche qui, come abbiamo detto, la prima a muoversi è stata AB InBev quando, nel 2016, ha acquisito il controllo totale del laziale Birra del Borgo. Nemmeno il tempo di digerire la notizia ed ecco, nel 2017, una serie in sequenza di altri acquisti: il belga Duvel Moortgat è entrato con una quota del 35% nell’emiliano Birrificio del Ducato, il suo “vicino di casa” Toccalmatto ha venduto alla beerfirm belga Caulier, il laziale Birradamare è entrato nel portafoglio Molson Coors e infine, lo scorso autunno, il lombardo Hibu ha varcato la soglia del gruppo Heineken anche se, per essere precisi, attraverso la controllata Dibevit Import.
In un mercato, come è quello nazionale, non particolarmente vibrante in termini di consumi pro capite e di crescita in generale la cosa ha fatto non poco scalpore inducendo tutti i protagonisti a fare alcune riflessioni su quali scenari futuri si potranno andare a delineare. Da un lato, infatti, ma questa è una considerazione valida anche a livello internazionale, la ristretta ma vivace comunità della birra artigianale ha reagito con durezza a quella che, da parte loro, è giudicata come un’invasione di campo. Birrifici artigianali hanno sciolto collaborazioni con altri passati al “grande nemico”, festival organizzati da un decennio sono stati boicottati da altri partecipanti perché l’organizzatore aveva “tradito la causa”, locali indipendenti votati da sempre, o quasi, alle birre artigianali hanno annunciato che non avrebbero più comprato quelle birre che oggi sono chiamate “crafty”.
Una levata di scudi che ha come obiettivo principale soprattutto AB InBev considerata, a ragione, il supremo artefice del fenomeno e che ha addirittura coinvolto un popolare sito di recensioni birrarie come Ratebeer acquisito anch’esso, in percentuale, da una società collegata alla multinazionale leader di mercato. Scene di questo tipo sono state vissute negli Stati Uniti ma anche in Italia dove la comunità di appassionati prova un sentimento di fedeltà quasi religiosa alla causa artigianale e dove il resto dei numerosissimi birrifici indipendenti prova una sensazione, comprensibile, di timore per le immense nuove potenzialità, in termini di distribuzione e di prezzi, che i crafty oggi possiedono. Non stupisce pertanto che anche le associazioni di categoria abbiano risposto, in maniera diversa, all’offensiva dei big player.
In America la Brewers Association ha lanciato un marchio collettivo, da applicare sulle bottiglie e sui bolli spina, che identificano la birra come prodotto di birrificio indipendente e ha, scherzosamente ma provocatoriamente, lanciato una campagna mediatica di “buyback” all’insegna del “se loro comprano noi, noi ci compriamo loro”. Ovvero aprendo un crowdfunding online per acquisire, a furor di popolo, la stessa AB InBev. In Italia, Unionbirrai si è mossa attivamente come non mai per difendere la definizione di birra artigianale anche in virtù della recente legge introdotta sull’argomento.
Le ragioni del fenomeno
Tuttavia, azioni e reazioni a parte, molte comprensibili e altre meno, ci sarebbe da chiedersi perché è nato e sta crescendo il fenomeno crafty. Quali sono le ragioni dell’improvviso risveglio delle grandi multinazionali e del loro ingresso in quello che è un mercato comunque di nicchia. Anche se la nicchia ha dimensioni differenti da nazione a nazione (a volumi di vendita negli USA supera il 12%; in Italia è circa del 3%). Le ragioni sono diverse, generali e particolari. Tra le prime ovviamente il successo internazionale delle birre artigianali che segnano le percentuali di crescita più interessanti in tanti mercati, un successo determinato dalla riscoperta delle cosiddette specialità, a lungo trascurate dai big, da un ritrovato gusto per aromi e sapori più caratterizzati, da una cultura di ritorno sulla naturalità dei prodotti e sul fascino delle tecniche di produzione dove l’uomo gioca, o sembrerebbe giocare, un ruolo più decisivo. In fondo la nascita e lo sviluppo della birra artigianale è stata la diretta conseguenza dell’omologazione e della standardizzazione della birra “industriale”. Poi ci sono le ragioni particolari, diversissime caso per caso. C’è chi ha venduto per difficoltà economiche, chi per un’età raggiunta e mancanza di eredi, chi per un desiderio di capitalizzare investimenti e fatica decennali. È importante, a nostro avviso, focalizzare l’attenzione sulla prima di queste ragioni particolari perché se è vero che la crescita della birra artigianale è ancora evidente, sebbene in certi Paesi come gli Stati Uniti stia decisamente rallentando, la proliferazione brulicante dei birrifici è stata molto più rapida della birra stessa.
In mercati sempre più affollati gli spazi di manovra si sono sempre più ristretti e la competizione è diventata sempre più feroce. Non è un caso se, sempre dagli Stati Uniti, arrivino le prime notizie di birrifici indipendenti in forti difficoltà e di altri che hanno rivisto i loro piani di espansione per tornare a lavorare, meglio e con maggiore tranquillità, nel loro territorio natale. In Italia la sensazione è più o meno la stessa, soprattutto tra i birrifici più “storici” e tra quelli che hanno raggiunto volumi di produzione che necessitano di adeguate strutture di sostegno, distributive e commerciali, per essere piazzati sul mercato. Non è un caso quindi che alcuni protagonisti abbiano recentemente investito in locali bandiera e altri abbiano stretto accordi con distributori storici e organizzati.
Il futuro
La conseguenza logica dell’avvento delle crafty, che si innesta in un mercato sovrappopolato da specialità, artigianali italiane ma anche straniere, è dunque un aumento di preoccupazione tra i piccoli produttori indipendenti che si trovano a dover fronteggiare un’offensiva “in casa”. Ma come viene considerato il fenomeno dai professionisti non direttamente coinvolti nelle acquisizioni.
Per Michele Camastra, Beer Specialist Doreca e uomo di lungo corso nel comparto birra, «le acquisizioni ci sono sempre state nel nostro settore e io credo che questo sia comunque un aspetto positivo per il mercato e soprattutto per le grandi che hanno messo a segno gli acquisti. Ne guadagneranno in termini di know how oltre che di prodotti e mi aspetto che nel 2018 si registrino altri movimenti del genere. Non solo acquisizioni tout court, ma anche fusioni e joint venture tra piccoli per rafforzarsi sul mercato magari centralizzando gli acquisti di materie prime».
Il suo pensiero è largamente condiviso anche da Stefano Baldan, amministratore delegato della giovane Brewrise, ma uomo d’esperienza ultradecennale nel campo: «Le acquisizioni? È una ruota che gira quindi non mi stupisce, poi bisogna considerare che ogni acquisizione, ogni vendita di birrificio, ha una storia particolare. C’è chi ha venduto per difficoltà economiche e chi lo ha fatto per potersi concentrare più sugli aspetti produttivi alleggerendosi invece la parte commerciale. Siamo solo all’inizio di un processo che continuerà anche nei prossimi anni, ma questo significa che il mercato è vivo e vitale e che il settore mantiene il suo fermento».
Che anche i piccoli possano unirsi in qualche modo per poter crescere o almeno resistere all’offensiva crafty dei big è un’ipotesi plausibile anche per Eugenio Signoroni, referente nazionale per Slow Food sulla birra e coordinatore della guida alle Birre d’Italia per l’editore della chiocciola: «Il mercato è magmatico come non mai e lo sarà anche nel prossimo futuro. Anch’io mi aspetto che tra i piccoli birrifici indipendenti nascano degli accordi di collaborazione, vuoi sul fronte degli acquisti di materie prime vuoi sulla possibilità di usufruire insieme di uno stesso impianto produttivo o, perché no, di aprire dei locali bandiera condivisi tra birrifici limitrofi. Quello che tuttavia auspico è una maggiore chiarezza nei confronti del consumatore, che dovrebbe sempre sapere che cosa sta acquistando e chi produce cosa. Ma le acquisizioni non rappresentano il male assoluto, almeno non tanto quanto la birra di bassa qualità».
Di certo, quello che stiamo vivendo, è un periodo di grandi trasformazioni. Inevitabili, a nostro modo di vedere, e ancora ai primi passi. Ma la strada dei prossimi anni sembra essere stata tracciata e solo chi ha compreso questa cosa, nella sua complessità, ma pure nelle opportunità che può offrire, sarà ancora un protagonista del mercato nel prossimo futuro.