Sempre più attraenti, lattine e bottiglie si vestono di colori e grafiche inedite e affascinanti. A volte minimal, altre piccole opere d’arte, i contenitori della birra fanno comunque tendenza. Come siamo arrivati qui? Nelle pagine seguenti uno dei più grandi esperti del settore birrario ci racconta com’è cambiato nei secoli il modo di confezionare la birra
Dagli otri alle lattine: il viaggio della birra
Tanti i cambiamenti nel confezionamento della birra. Oggi il confine è rappresentato dalla sostenibilità coniugata con la perfetta conservabilità del prodotto. Quindi, vetro a rendere, bottiglioni riutilizzabili, maxi-fusti, fusti in plastica a perdere e lattine
di Tullio Zangrando
La straordinaria diffusione delle birrerie artigianali ha moltiplicato le opportunità di gustare una buona birra a chilometri zero, prima che questa debba “soffrire” gli inevitabili sbalzi di temperatura e gli altri inconvenienti dovuti al trasporto. Tuttavia, in funzione dello sviluppo dei mercati, la maggior parte dei consumi avviene a media e a lunga distanza dal sito produttivo. Invece nel lontano passato, quando i piccoli imballaggi non erano ancora diffusi, la birra si doveva necessariamente bere sul posto di produzione, nella taverna antesignana dell’odierna pub brewery o a casa, dove la preparazione del variamente aromatizzato infuso fermentato di cereali era affidata soprattutto alle donne-homebrewer. Dopo gli otri in pelle animale, i primi recipienti utilizzati in antichità furono quasi certamente le anfore in terracotta: servivano sia per la fermentazione sia per lo smercio e si preferiva bere da questi succhiando la birra attraverso cannucce per non pescare il fondo di lieviti e altri residui. Questo tipo di contenitore è stato recuperato e le anfore (utilizzate peraltro solo per la fermentazione) rivivono oggi soprattutto grazie all’inventiva di Leonardo Di Vincenzo, fondatore e titolare della Birra del Borgo di Borgorose, in provincia di Rieti (Foto 1). Anfora di Birra del Borgo è una corposa Barley Wine da 16° alcolici fermentata e maturata nelle anfore per 24 mesi e poi imbottigliata senza rifermentazioni per esaltare il gusto e la potenza ossidativa del contenitore.
(Foto 1)_ Oggi le anfore sono utilizzate da alcune birrerie artigianali innovative solo per la fermentazione e per la maturazione di birre molto speciali (courtesy Birra del Borgo)
Dalle anfore ai fusti
Nell’evoluzione degli imballaggi per la distribuzione della birra (ma anche del vino e di altre bevande) la tappa successiva furono le botti in legno. Se di piccola taglia, oggi, piuttosto che botticella o barilotto, il termine più frequente è fusto, di etimologia botanica: il legno del fusto degli alberi serviva appunto per ricavarne le doghe necessarie per costruire tali recipienti e il nome è stato mantenuto anche oggi che i fusti sono in metallo o in plastica. Sulla Colonna Traiana, eretta a Roma nel 113 d.C., è visibile anche una barca che trasporta due fusti: hanno la stessa forma di oggi, ma, considerata la scarsa popolarità della cervisia nell’antica Roma, è assai più probabile contenessero acqua o vino, piuttosto che birra. La raffigurazione della costruzione delle botti era a quei tempi però già nota, la si è trovata anche ben prima in una tomba egizia del 2700 a.C. Era (e lo è pure oggi, anche se ormai è un settore di nicchia) un’attività che richiedeva grande abilità. Tornando alla birra, soprattutto per quella della Mitteleuropa, un progresso di grande portata fu rappresentato dall’adozione del sistema di rivestimento interno a caldo dei fusti di legno con la resina ottenuta dalle conifere, così da renderli perfettamente stagni ed evitare perdite di anidride carbonica e più facilmente lavabili (ma con l’inconveniente di perdere così “l’effetto barrique”). Purtroppo, non è noto quando tale tecnica sia entrata in uso, ma indubbiamente fino alla metà del secolo scorso, quando presero il sopravvento i fusti metallici, l’estrazione della resina dagli alberi di pino e la sua raffinazione costituirono un settore agroindustriale di notevole importanza. Dal nome della città anatolica di Kolofon, dove secondo alcuni nacque Omero, deriva quello del componente principale della resina, la “colofonia”, all’epoca utilizzata non per impermeabilizzare i barili, ma per rendere stagne le carene delle navi. È una sostanza organica complessa che si presenta come una massa resinosa trasparente, dal colore che va dal giallo pallido all’ambra scura. Ancor prima che entrassero in vigore le moderne disposizioni legislative riguardanti il peso massimo sollevabile manualmente, il settore dei birrifici si orientò a una capacità massima di 100 litri per i fusti in legno, ma i più diffusi erano quelli da 50 litri. I bottai ne curavano l’assidua, costosa manutenzione e le periodiche verifiche del contenuto. La mescita richiedeva il preliminare raffreddamento del fusto (foto 2), mentre oggi predominano come noto i refrigeranti istantanei, collegati a colonnine di erogazione di grande impatto estetico.
(foto 2)_ Cantina con raffreddamento preliminare dei fusti in una birreria tedesca alla fine del XIX secolo (archivio T.Zangrando)
I tempi del keg
Nel secolo XIX i grandi progressi tecnici durante la rivoluzione industriale portarono in Francia, intorno al 1870, ai primi tentativi di sostituire il legno con lamiera di acciaio, ma sembra che il primo barile metallico costruito su larga scala sia stato, nel 1910, quello adottato da una birreria tedesca, a Wuppertal, non a caso nel distretto metallurgico della Ruhr. La diffusione dei barili metallici (soprattutto in lega di alluminio) fu però lenta fino a dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando si assi-stette alla loro definitiva accettazione da parte di un settore, come quello birrario, a quei tempi ancora piuttosto riluttante a innovare e oggi, in pratica, i fusti in legno sono ormai solo un ricordo e sono utilizzati, di solito in occasioni particolari, solo da pochissime birrerie rispettose della tradizione. I fusti a rendere ora sono tutti in acciaio inossidabile e vengono spesso chiamati anche “keg”, dall’acronimo di Krupp Edelstahl Gebinde. Collegare il fusto con il tubo che porta al rubinetto di erogazione (in gergo “mettere a spina”) può essere complicato per i meno esperti, ma è diventato facilissimo conoscendo, anche con varianti, un successo mondiale grazie al brevetto inglese della Sankey (1975), la prima ad aver costruito un maneggevole connettore rapido al “tubo pescante” incorporato nel keg (foto 3).
(foto 3)_ Connettore rapido incorporato nel keg (courtesy Dr. J. Tippmann, Krones Freising
Il predominio del vetro
Dopo millenni di assoluto predo-minio dei fusti, a partire da circa 150 anni il nostro settore è stato caratterizzato dalla progressiva espansione delle bottiglie, che secondo le stime più attendibili, oggi coprono oltre l’80% del mercato mondiale di birra (poco più di 1,9 miliardi di ettolitri), mentre il resto si suddivide fra lattine e fusti (questi ultimi in piccola parte oggi anche in plastica a perdere). Decisive per l’affermazione delle bottiglie sono state tre innovazioni di grande portata: il tappo meccanico (Foto 4), inventa-to nel 1875 da Charles de Quillfeldt negli Stati Uniti e perfezionato poco dopo dal berlinese Carl Dietrich; il tappo a corona, brevettato da William Painter a Baltimora (USA) nel 1892 (per inciso possiamo notare che il tappo corona è il più diffuso e che, con orgoglio, il più importante pro-duttore mondiale è l’azienda italiana Pelliconi); la macchina automatica dell’americano Owens, che permise, nel 1903, di elevare la produzione oraria delle bottiglie da poche unità soffiate (dapprima a forza di polmoni, poi con aria compressa meccanica-mente) a ben 3600. Da allora il vetro ha conquistato il mercato, nelle due categorie a rendere e a perdere (‘one way’), con una straordinaria varietà di forme, capacità e colori. Mentre (in particolare in Europa) la plastica ha avuto scarsa fortuna, soprattutto perché, almeno finora, non si è ancor trovato un sistema economico per renderla impermeabile all’ossigeno atmosferico. La straordinaria affermazione delle bottiglie rivoluzionò l’industria birraria, con i reparti di imbottigliamento divenuti il centro di costo di maggior peso. Ed ebbe per il settore birra ricadute di grande portata anche sociale, permettendo un’espansione dei consumi in genere e di quelli casalinghi in particolare: al punto che Gustav Stresemann (1878-1921), futuro Cancelliere della Germania Guglielmina e Premio Nobel per la Pace nel 1926, fece dell’analisi del fenomeno dell’aumento dei consumi di birra in bottiglia l’argo-mento della sua tesi di laurea in sociologia (1900).
(Foto 4)_ Il tappo meccanico, inventato quasi un secolo e mezzo fa, è stato quasi completamente sostituito dal tappo corona, ma oltre al vantaggio di essere richiudibile conferisce prestigio alle bottiglie. (courtesy Birra Amarcord)
Lattina o barattolo?
Le prime lattine in banda stagnata per la conservazione di cibi furono introdotte in Inghilterra nel 1814, ma per la birra dovettero passare quasi 120 anni: fu infatti nel 1933, sull’on-da dell’entusiasmo per l’abolizione del Proibizionismo, che la Krueger di Richmond/Virginia commercializzò la prima lattina, subito accolta con successo dai consumatori. In-frangibili, leggere e ideali dunque sul-le lunghe distanze, vincono anche la gara della conservabilità perché offrono la miglior protezione possibile dai due principali nemici della birra finita e confezionata: la luce e l’ossigeno atmosferico (il qua-le, invece, attraverso le guarnizioni dei tappi a corona riesce a penetrare, seppur in quantità minime). La prima birra in lattina fu commercializzata in Italia dalla Birra Pedavena nel 1957: all’epoca per aprirla si doveva disporre di un apposito attrezzo dotato di una punta aguzza, con la quale si praticavano nel coperchietto due aperture triangolari diametralmente opposte, una per la fuoruscita della birra e l’altra per faci-litare l’ingresso dell’aria (foto 5). Agli inizi il termine ‘lattina’ era corretto, mentre lo è di meno dal 1959, anno dell’introduzione dell’al-luminio per merito della Coors di Golden/Colorado, e sarebbe dunque più appropriato il termine ‘barattolo’. Questa confezione è diventata sempre più leggera ed ecologica, soprattutto da quando (1989) il coperchietto ‘a strappo’ è stato sostituito da quello ‘a linguetta rientrante’, un vero capolavoro della tecnologia, anche se taluni obiettano che in tal modo qualche traccia di sporco depositatasi sul coperchietto durante la fase di distribuzione potrebbe eventualmente entrare nella birra, argomento addirittura trattato in una trasmissione RAI nell’ottobre 2002. Tuttavia a mio avviso si tratta di un timore infondato. L’ultima frontiera è oggi il dispositivo di apertura richiudibile della Xolution di Monaco di Baviera (foto 6).
(Foto 5)_ La prima lattina di birra confezionata in Italia era in banda stagnata (archivio T.Zangrando)
(Foto 6)_ Dispositivo di apertura richiudibile della Xolution
Fusti: mini e maxi
Ma il progresso non si ferma mai e così negli ultimi decenni abbiamo assistito, tra l’altro, alla comparsa dei fusti in plastica (per lo più a perde-re), dei mini-fusti e dei maxi-fusti. I fusti in plastica a perdere (di capacità intorno ai 20 litri e una tara di circa solo 1 kg) hanno grandi vantaggi: oltre alla maneggevolezza e alla decisa riduzione dei costi della logistica distributiva, non devono essere ritrasportati alla birreria produttrice per essere sanificati. Inoltre, sono riciclabili (i produttori parlano di una quota di riciclo superiore al 95%) e sembra siano imminenti innovazioni che ne favori-ranno l’ulteriore diffusione anche in quei Paesi dove non sono stati finora accettati per considerazioni ambientali. L’adozione dei fusti monouso ha comunque permesso a molti birrifici anche piccoli di ampliare la propria offerta e di ridurre i costi di gestione dei keg. (foto 6 A). I mini-fusti sono pensati soprattutto per occasioni particolari o per il consumo domestico e finora hanno una diffusione limitata (foto 7). I maxi-fusti (in realtà, piccoli serbatoi) sono adatti soprattutto per punti di vendita alto-vendenti. Un interessante esempio sono i Duotank (Foto 7A), dotati di sacche interne di plastica riciclabili, che non necessitano pertanto di essere sanificati dopo lo svuotamento. Sono riforniti con autocisterne e quelle utilizzate in Olanda nella città di Utrecht sono addirittura a trazione elettrica, con evidenti vantaggi dal punto di vista della riduzione dell’inquinamento, dei consumi di risorse e di emissioni di anidride carbonica (foto 8). In tema di sostenibilità ritengo però doveroso ricordare i vantaggi che solo sulle lunghe distanze hanno i contenitori a perdere. Secondo l’approfondito studio pubblicato nel 2018 dai professori Cimini e Moresi dell’Università della Tuscia di Viterbo, un ettolitro di birra consegnato al punto di vendita dopo un percorso di 200 km in bottiglie in vetro a perdere provoca emissioni di 78 kg di CO2, in lattine di 81, ma in fusti inox di soli 37 kg. Un valore simile è stato indicato anche dai ricercatori tedeschi per le bottiglie a rendere: a convalida della preferenza che si dovrebbe dare al rendere, ancora in voga (o addirittura obbligatorio per legge) nei Paesi ‘frugali’, ma che in Italia, secondo gli ultimi dati di AssoBirra, rappresenta solo circa l’8% del mercato. Determinare con precisione l’impronta di CO2 di un imballaggio richiede grande professionalità e costa decine di migliaia di euro. Non sono a conoscenza di studi di questo tipo sui cosiddetti bottiglioni a tappo meccanico riutilizzabili, ma mi sento di poter tranquillamente affermare che dal punto di vista della sostenibilità rappresentano l’optimum (foto 9). Si riempiono, con opportuni accorgimenti per evitare perdite di gas, presso un punto di vendita di birra alla spina. A casa, subito dopo lo svuotamento, ossia prima che i residui liquidi, asciugandosi, formino una patina rimovibile soltanto con impiego di detersivi a caldo e inevitabilmente inquinanti, si risciacqua-no accuratamente. Ecco allora che il loro utilizzo comporta il minimo possibile consumo di risorse, ovviamente se chi li acquista non deve percorrere troppi chilometri: entrano infatti in gioco anche altri fattori, come, ad esempio, la cilindrata dell’autovettura, il carburante impiegato, lo stile di guida. Il tutto a dimostrazione di quanto è complesso l’affascinante ed importante tema della sostenibilità, come anche i recenti summit di Roma e Glasgow hanno messo in rilievo.
(Foto 6A)_Fusto in plastica a perdere a doppia parete: la sacca interna, permette la mescita con pressione di aria anziché anidride carbonica
(Foto 7)_ Esempio di mini-fusto a rendere costituito da un contenitore interno inox ricoperto da un involucro esterno isolante in materiale plastico, nel quale è incorporata la capsula di CO2 necessaria per l’erogazione in contropressione (courtesy Archivio T.Zangrando)
(Foto 7A)_ Serbatoi di spillatura installati in un grande ristorante-birreria olandese (courtesy M.Uijterwaal, Duotank, Waalre/Olanda)
(Foto 8)_ Una delle autocisterne che riforniscono gli esercizi pubblici di Utrecht dotati di serbatoi di spillatura (courtesy M.Uijterwaal, Duotank, Waalre/Olanda)
(Foto 9)_ Bottiglione a tappo meccanico riutilizzabile