Prendiamo in prestito la frase di Lorenzo Kuaska Dabove, “la birra non esiste, esistono le birre” per sintetizzare almeno uno dei punti cardine di quanto, se vorrete, andrete a leggere nelle prossime pagine. Si parla di luppolo ovviamente, ovvero di quell’ingrediente della birra che diamo tutti per scontato così come diamo per scontati acqua, malto d’orzo e lievito. Tuttavia, se questi ultimi tre elementi hanno concorso, fin dall’alba della civiltà, a comporre la birra, per il luppolo il percorso è stato un po’ più arduo. Forse, pure, con qualche inciampo lungo la strada.
Fin dall’Antico Egitto
Spesso, durante le degustazioni guidate o le lezioni sulla birra, si sente dire che l’affermazione del luppolo come componente essenziale della birra si sia concretizzata nel 1516 con il famoso Reinheitsgebot, l’Editto di Purezza che il buon Guglielmo IV, duca di Baviera, decise di emanare in realtà più per questioni riguardanti l’uso di un’altra materia prima, l’orzo, piuttosto del luppolo. Ora, in effetti si può ritenere il Reinheitsgebot una importante presa d’atto e, di certo, un documento ufficiale che la ricerca storica non può sottovalutare, tuttavia il luppolo non apparì magicamente a corte un bel giorno del 1516. La strana pianta rampicante era conosciuta già nell’Antico Egitto, dove appare in alcune prescrizioni mediche con-tenute in quello che è conosciuto come il Papiro Ebers, ed era nota perfino pure ai Romani.
Su basi scientifiche si appoggia poi la notizia del ritrovamento di tracce di luppolo, insieme a quelle di cereali, nei vasi recuperati nella necropoli di Pombia (Novara) databile a qualche secolo prima di Cristo. Che la pianta fosse dunque già nota e che perfino fosse già utilizzata an-che nella produzione di birra prima del 1516 e prima degli studi della botanica Hildegard Von Bingen appare chiaro.
Tuttavia appare altrettanto chiaro come gli studi della religiosa austriaca, Hildegard era principalmente quello, e il Reinheitsgebot costituirono le fondamenta per la diffusione del suo utilizzo, per la scomparsa del leggendario gruit e di tutte quelle miscele di spezie, erbe, radici che costituivano, fino all’affermazione del luppolo, una delle principali componenti aromatiche delle birre.
La “carriera” del luppolo
Non vogliamo qui dare troppo spazio alle caratteristiche per le quali il luppolo spazzò via tutti i suoi “concorrenti”, le proprietà antiossidanti e conservative andarono di pari passo con la gradevolezza dell’aroma che regalava alla bevanda, e l’imprimatur legale del duca di Baviera costituì un suggello che, prima o poi, i birrai avrebbero comunque fatto proprio. Qui preferiamo indagare le fasi più recenti della carriera del luppolo, da leggersi sempre tuttavia al plurale, un successo che negli ultimi anni si è fatto davvero eclatante tanto da convincere numerosi commentatori a parlare e scrivere di “oro verde”. In effetti, le notizie che giungono dalle classiche zone di coltivazione del luppolo sono emblematiche.
Negli Stati Uniti, dove le piantagioni più grandi si trovano nella costa occidentale e precisamente negli stati di Washington, dell’Oregon e dell’Idaho, la superficie in acri è cresciuta (dal 2012 al 2017) del 79,5% e la produzione del 77%. Nel Vecchio Continente, dove la Germania gioca il ruolo di principale protagonista sul mercato, la Commissione Europea fa sapere che il luppolo è coltivato in ben 14 Paesi con Repubblica Ceca, Polonia, Slovenia e Regno Unito a inseguire i produttori tedeschi. Negli ultimi anni sono stati piantati altri duemila ettari di luppoleti ed è bastata un’annata difficile, come quella del 2015, per mettere in crisi la disponibilità di certe varietà come Hersbrucker, Spalter Select e Saphir. Andate letteralmente in sold out come, del resto e sempre negli stessi anni, le varietà Simcoe, Amarillo, Citra e Mosaic negli Stati Uniti.
Decine e decine di varietà
Le varietà ecco, questo forse è un passaggio importante e magari non conosciuto troppo nemmeno da molti operatori della filiera e ci permette di riagganciarci alle prime righe scritte. Il luppolo da birra non è mai un monotipo: in natura esistono decine e decine di varietà, alcune di lunga tradizione come il Saaz Saaz che ha contribuito non poco al successo planetario della pilsen, altre di più recente afferma-zione, come l’americano Cascade, ma di altrettanto mondiale successo.
Esistono luppoli da amaro e luppoli da aroma, ognuno dei quali con un contenuto di alfa acidi, e non solo, differente che gioca un ruolo decisivo nel profumo e nel gusto della birra. Il ritorno prepotente del ruolo dei luppoli nella produzione birraria, un ritorno fomentato dalla crescita delle produzioni artigianali in tutti i continenti da un lato e dalla rinnovata moda per le birre luppolate (India Pale Ale, American Pale Ale, Double Ipa, Black Ipa, White Ipa e chi più ne ha più ne metta), ne ha fatto schizzare verso l’alto la richiesta. Alcune birre sono “costruite” certamente su un solo luppolo, ma la maggior parte ne impiega di diversi tipi con il birraio che, sfruttando le diverse proprietà aromatiche di ciascuna varietà, va a comporre un bouquet che “persona-lizza” la sua birra.
Tutti questi fattori, e l’ingresso sulla scena dei luppoli delle grandi multinazionali, ha provocato un terremoto in quello che sembrava un mondo tranquillo ormai sedato dal tran tran stagionale tipico di una produzione agricola. La notizia, abbastanza recente, della monopolizzazione dei luppoli sudafricani da parte di AB InBev ha scosso l’ambiente, esatta-mente come quella riguardante lo scozzese Brewdog che, tra il 2012 e il 2013, aveva di fatto acquistato tutto il Nelson Sauvin, una varietà originaria della Nuova Zelanda, che era riuscito a trovare. Lasciando agli altri le briciole.
Crescita costante dei prezzi
La corsa all’accaparramento dell’oro verde ha prodotto due conseguenze: la crescita costante dei prezzi registrata negli ultimi anni e la diffusione di contratti a medio termine tra birrifici e aziende produttrici di luppolo. Così, almeno, è andata fino allo scorso anno quando il rallenta-mento della crescita esponenziale di birrifici e il rallentamento delle vendite di birra ha messo in difficoltà diversi “contrattualizzati”, colpevoli di aver confidato in una crescita eccessivamente ottimista.
Ma, difficoltà a parte, non è sbagliato riferirsi a quella attuale come l’età del luppolo. Le varietà a disposi-zione continuano, infatti, ad aumentare di numero e sempre più sono varietà frutto di incroci, pensate e realizzate da coltivatori e immesse sul mercato dove riscontrano quasi sempre l’interesse dei birrai più avanguardisti. E non sono solo i birrai a di-mostrare interesse verso l’oro verde, lo sono anche i consumatori che, soprattutto nella nicchia craft, influenzano almeno in parte il mercato.
L’avvento del Cascade, forse il primo luppolo a segnare uno spartiacque tra un “prima” e un “dopo” ha insegnato che c’è sempre una certa attesa per una nuova varietà di luppolo. Attesa per le sue caratteristiche organolettiche (agrumato, resinoso, tropicale, balsamico, speziato) e per la birra alla quale darà vita. E c’è in-fine chi, come ad esempio il danese Mikkeller, ha da poco lanciato una Terroir Series sul principio che la stes-sa varietà di luppolo si caratterizza in maniera differente, a seconda del ter-ritorio e clima, il terroir appunto, nella quale è coltivata.
Luppoleti in Italia
Fantascienza? Fino all’altro ieri forse sì, ma che il trend dei luppoli, quasi una Hops Craze, sia in ascesa è tangibile con mano. Anche in Italia, dove sono spuntati come funghi dopo una pioggia autunnale un numero notevole, ancorché difficile da quantificare, di luppoleti. Molti sembrano più visioni poetiche di autarchia produttiva per la serie faccio birra con la mia acqua, il mio lievito, il mio orzo e il mio luppolo, ma ci sono in campo progetti seri.
Il più serio di tutti è nato nel 2011 come progetto sperimentale dell’Università di Parma che si è trasformato, nel 2014, in un’azienda vera e propria chiamata Italian Hops Company, con sede nel modenese. Per quanto picco-la come dimensioni, il raccolto 2018 è previsto su circa dieci ettari di terreno, è la più grande nella Penisola e l’unica registrata al Ministero dell’Agricoltura. Eugenio Pellicciari, l’agronomo che l’ha fondata accanto ad altri soci, coltiva insieme al luppolo il sogno di diventare il punto di riferimento per il prodotto made in Italy.
In realtà lo è già perché al fianco di varietà americane come Chinook, Cascade e Centennial, coltiva varietà in esclusiva (Bravo e Denali) e alcune varietà autoctone selezionate e bre-vettate da loro. «Due principalmente da aroma, chiamate Aemilia e Futura, e una più da amaro, simile al Fuggle inglese, di nome Modna» ci spiega.
«Il lavoro ci sta dando delle belle soddisfazioni, ma il mercato non è così tutto splendente come potrebbe sembrare. La birra, soprattutto quella craft, cresce ma non come prima e questo rallentamento si riflette anche nel nostro settore: si fa fatica a fare una programmazione con i birrifici che, in buona parte, sono diventati più prudenti». Ma il tempo in agricoltura non scorre alla stessa velocità di quello nel commercio. Una pianta di luppolo entra in pieno regime produttivo dopo tre anni e può andare avanti anche per venti. Ergo le previsioni e i progetti lavorativi si fanno con lo sguardo all’orizzonte non ai propri piedi.
«Noi ci crediamo – ribadisce Pellicciari –, abbiamo collaborazioni con molti tra i più grandi birrifici artigianali italiani, alcuni birrifici all’estero e un buon numero di contatti in essere che speriamo si realizzino. Per noi non è tanto importante vendere qualche chilo di luppolo ma costruire un rapporto con un birrificio che, se fatto per un certo periodo di tempo, si garantisce ovviamente la qualità costante che serve alla costanza qualitativa delle sue birre». E permette di lavorare con maggiore serenità al pro-duttore di luppolo…
Un mercato giovanissimo
Un ragionamento semplice, a dirla tutta, e facile da comprendere, ma non così facile da realizzare per le dimensioni minuscole che caratterizzano la maggior parte dei birrifici italiani. Il futuro però, lo pensiamo, è dalla parte di Italian Hops Company e forse di qualche altro player che potrebbe farsi spazio in questo giovanissimo mercato. «Noi abbiamo chiuso il 2017 con circa sei tonnellate di luppolo verde – conclude Pellicciari –. Cinque sono state essiccate per un peso finale di circa una tonnellata e il resto è stato venduto appena raccolto. Ci sono spazi per crescere è vero, ma ci sono anche molti investimenti da sostenere». Altri luppoleti in Italia non mancano, ma la maggior parte sono di proprietà diretta di alcuni birrifici e, a dire il vero, più di rappresentanza che altro. Il fatto è che coltivare e lavorare il luppolo non è come fare la birra: i know how sono diversi. Non a caso l’esempio di Italian Hops Company può più facilmente essere seguito da agricoltori piuttosto che da birrai.
Ma siamo all’età della pietra, al-meno dalle nostre parti. È tuttavia indicativo che per la prima volta, a parte alcuni esperimenti storici come quelli condotti da Gaetano Pasqui nel XIX secolo, anche in Italia si pensi a una coltivazione professionale dell’elemento aromatico universale per la birra. Universale certo, ma da declinare sempre al plurale.
Nel resto del mondo, dove invece mercato e produttori sono più sviluppati, le prospettive restano comunque abbastanza rosee. Se l’euforia di qualche anno fa sembra essersi un po’ raffreddata, la tendenza è ancora stabile sul segno “più” e la spinta dettata da nuovi consumatori si riflette sulla ricerca e l’innovazione. In poche parole, sulle nuove varietà che continuano ad arrivare sul mercato. E quando un mercato continua a offrire novità, significa che gode di buona salute.
Articolo di M.Maestrelli