Un passaggio in botte. Un processo di affumicatura del malto. Un incontro con frutti ed erbe. Tante sono le occasioni per proporre una birra diversa. Soprattutto in periodo di feste.
di Giuliana Valcavi
Ora che il consumatore italiano è stato svezzato e ha imparato a bere birra, grazie, prima, alle crescenti importazioni delle specialità straniere e, dopo, alle birre artigianali, ecco che può approcciarsi a qualcosa di diverso rispetto alla classica ‘bionda’, in particolare nel periodo invernale e in occasione delle feste di fine anno. Certo, occorre una preparazione a certe specialità, occorre un contesto di consumo adeguato, ma se tutto funziona come dovrebbe, ecco che può scattare una scintilla improvvisa di passione.
In botte
La birra e le botti hanno una lunga storia insieme. Con l’industrializzazione, questa pratica è passata in secondo piano in molti Paesi, anche se parecchi birrifici hanno conservato la tradizione, continuando a invecchiare le loro birre in botte. Questo processo di invecchiamento è complesso e richiede esperienza e conoscenza dei diversi tipi di botti e di legni e il loro impatto sulla birra. Bisogna sapere come il microbioma della botte interagirà con quello della birra e quando la maturazione deve essere fermata per dare vita a un prodotto equilibrato.
Ora, stiamo assistendo a un revival dell’invecchiamento delle birre passandole in legno e, indipendentemente dallo stile, i metodi di invecchiamento in botte sono in piena espansione in tutto il mondo, dalla pratica tradizionale belga nelle birre Oud Rood/Bruin e Gueuze agli usi molto creativi dei piccoli birrai. Vecchie botti di distillati (whisky, rum o bourbon) e di vino vengono usate per la maturazione di Imperial Stout, IPA, Pale Ale, Triple e anche Lager per dare loro una forte identità, un profilo di sapore unico grazie agli aromi dei distillati e arricchire la loro storia agli occhi dei consumatori.
«L’affinamento in botte determina un’evoluzione di aromi e gusto nella birra. Variabili fondamentali sono la tipologia di legno utilizzato, l’età della botte e ovviamente l’eventuale alcolico contenuto in precedenza nella botte stessa che conferirà alla birra le sue note aromatiche – indica Stefano Baldan, CEO di Brewrise. – Botti che hanno contenuto vino, tequila, rum, ma soprattutto whisky, in particolare bourbon, sono quelle più ricercate e apprezzate per la maturazione della birra. Da questo punto di vista il birrificio americano Founders si può considerare un pioniere con il suo progetto Barrel Aged, partito con la celeberrima KBS e ora ampliatosi in molteplici direzioni diverse. Anche il birrificio dell’abbazia trappista di Chimay si è dedicato negli ultimi anni alla rifermentazione in barrique della sua iconica Grande Réserve. Peculiare è inoltre il caso di Dubuisson, la più antica brasserie della Vallonia, che ha intrapreso la maturazione in botti di vino di Borgogna per due delle sue birre più conosciute, Bush Triple e Bush de Noël, che riposano rispettivamente in botti di Meursault e di Nuits-Saint-Georges divenendo Bush de Charmes e Bush de Nuits».
«Le birre in botte sono le birre che più si prestano all’invecchiamento, ma l’invecchiamento è un fattore importante anche in bottiglia – continua Stefano Baldan. – È per questo che Brewrise ha creato la sua Vintage Cellar, un progetto dedicato alle birre che si prestano alla maturazione in bottiglia e che continuano ad evolvere, mantenendo caratteristiche qualitative ottimali. Quello delle birre invecchiate a nostro avviso è un trend in crescita grazie alla rinnovata attenzione portata dal fenomeno craft. È sicuramente un segmento di nicchia, il quale però sta crescendo contestualmente alla consapevolezza di un numero sempre maggiore di consumatori che si avvicinano al mondo delle birre speciali. Quello che vediamo è comunque un’opportunità che arriva fino all’intercanalità, quindi non solo il super horeca, ma anche altri segmenti di mercato, quali, ad esempio, american bar e cocktail bar, dove c’è da sempre una grande ricerca di prodotti esclusivi e complessi».
Non solo fumo
«Una volta tutte le birre erano affumicate per effetto delle modalità di funzionamento degli essiccatori del malto disponibili allora, che, oltre a preparare la materia prima per la produzione brassicola, garantivano anche in parte la conservazione del prodotto – spiega Stefan Grauvogl, direttore della sede Doemens in Italia, scuola fondata nel 1895 per la formazione di mastri birrai e biersommelier e che dal 2008 organizza seminari specializzati dedicati alle Rauchbier ma anche ad altri stili birrari e tecnologici per la produzione di birra. – Non c’era altra tecnologia, tutti avevano questo tipo di essiccatore a fiamma diretta, che come effetto collaterale, tra l’altro non sempre apprezzato, conferiva il sapore di affumicato. Tanto è vero che la migliore arte brassicola stava nel produrre una birra con meno fumo possibile. Poi, in Cornovaglia nel 1635 è stato inventato un essiccatore che funzionava ad aria calda e così scemava nell’arco dei secoli pian piano il tempo delle birre affumicate. O meglio, le birre affumicate sono diventate una specialità, frutto di una tradizione coltivata in particolare a Bamberg, area di elezione delle Rauchbier». «Oggi le Rauchbier hanno mediamente sapore più rotondo, meno pungente rispetto al passato – continua Stefan Grauvogl. – Sono più piacevoli grazie a modalità produttive che hanno corretto quelli che potevano essere considerati difetti. La produzione in passato era molto empirica, non c’era la possibilità che abbiamo adesso di controllare in modo scientifico alcune caratteristiche».
Le Rauchbier e in generale le birre affumicate sono birre particolari, sono tra quelle che più creano emozioni differenti. «Come d’altra parte le birre acide. Tutte le birre estreme hanno questa caratteristica e molto dipende dal prodotto, dalla loro intensità d’impatto sensoriale. Più il fumo è accentuato, più difficile sono l’approccio e l’eventuale abbinamento a tavola – spiega Grauvogl. – Comunque, dipende molto anche dal contesto di consumo. Un ruolo notevole nell’apprezzare queste birre è giocato dalla preparazione alla degustazione del prodotto e dall’atmosfera, caratterizzata da sigari, castagne e altri abbinamenti studiati. Ottimo anche l’utilizzo per la preparazione di alcune ricette, magari nella marinatura, per il conferimento di note affumicate».
Questione di ingredienti
«L’odierna produzione birraria, anche quella artigianale, appare estremamente standardizzata e ripiegata su due ingredienti vegetali principali, seppur declinati in infinite varianti: malto d’orzo e luppolo – spiega Giuseppe Caruso, professore e autore del libro ‘La botanica della birra’. – L’uso di piante alternative a queste era invece assai comune in passato. A causa delle difficoltà esistenti nelle comunicazioni e nel commercio, era spesso necessario utilizzare prevalentemente le risorse del territorio. Quindi, era del tutto normale utilizzare cereali alternativi (o integrativi) all’orzo, per fornire carboidrati complessi al processo di ammostamento e zuccheri semplici alla fermentazione ed era ancor più naturale impiegare piante (o parti di esse), provenienti direttamente dal territorio, per assolvere alle funzioni oggi interamente demandate al luppolo: amaro, aroma, stabilità microbiologica. In alcuni Paesi di maggiore tradizione brassicola del nord Europa, prima dell’avvento del luppolo, era in uso un mix di piante spontanee, il gruit, che aveva, appunto, la funzione di amaricare, aromatizzare e conservare la birra». Le specie utilizzate in tutto il mondo per brassare la birra sono state tante, come indica Giuseppe Caruso, anche più di 500: «Con riferimento al solo Bel Paese, le specie più utilizzate nel brassaggio sono diversi cereali (frumento tenero, frumento duro, mais, segale, farro, avena, riso, gran saraceno, etc.). Tra le piante da frutto, molto utilizzate arancia, arancia amara, bergamotto, cedro, chinotto, limone, mandarino, pompelmo, etc., ma anche pesca, nettarina, albicocca, susina, ciliegia, amarena, mela, pera, fragola, etc. Nel redigere un elenco, ancorché parziale, di piante brassicole italiane, non si può non menzionare il contributo fornito dai grappoli di alcuni dei numerosi vitigni coltivati in Italia, all’unico stile birrario – l’Italian Grape Ale – riconosciuto internazionalmente come italiano (sebbene l’italianità di questo stile sia stata recentemente messa seriamente in discussione). Ma altre piante hanno contribuito a disegnare l’identità delle birre italiane, come, ad esempio alcune cultivar di castagne, tra le numerose coltivate in Italia. E non possono mancare le numerose spezie esotiche: pepe nero, curaçao, pepe di Sichuan, anice stellato, coriandolo, cannella e così via».
«Nelle birre brassate grazie ai soli main ingredients (malto e luppolo) si esprime già un ampio ventaglio di sollecitazioni sensoriali, derivanti dagli ingredienti stessi e dal metabolismo dei lieviti – continua Giuseppe Caruso. – Ma se aggiungiamo altri ingredienti, una gamma tutta nuova di prodotti del metabolismo vegetale, primario e secondario, entrano in gioco. Carboidrati complessi, zuccheri semplici, acidi organici, sali minerali, olii essenziali, aminoacidi, proteine, aromi, sapori, pigmenti vegetali, in una molteplicità di nuance, talmente originali da riuscire non solo a creare nuovi ed originali prodotti brassicoli, ma anche da dare nuovo slancio a stili birrai già piuttosto consolidati».
L’incontro con l’uva
Come anticipato, uno degli ingredienti più interessanti che negli ultimi anni ha caratterizzato il mondo birrario è l’uva sotto forma di mosto, di succo, di saba o di vino. Sono nate così le IGA, vere espressioni autoctone di un territorio. «Le IGA sono tanto diverse quanto il numero dei vitigni che abbiamo in Italia – indica Stefan Grauvogl. – Il concetto di terroir che si va affacciando anche nel settore birrario vale ancora di più per le IGA. C’è qualche esperienza anche all’estero in questo senso, ma limitata. La creatività italiana e la disponibilità dei viticoltori italiani a sperimentare nell’ambito birrario sono uniche».
Potremmo seguire per gli abbinamenti la falsa riga dei vitigni? «Molto dipende dal singolo prodotto – risponde Stefan Grauvogl. – Le variabili sono davvero numerose e legate al vitigno, alla percentuale di mosto d’uva o di vino, allo stile birrario, ecc. Molto variabile anche la gradazione alcolica. Comunque, una buona IGA non dovrebbe sapere né di vino né di birra. Dovrebbe presentare un profilo gustativo a sé stante. In questo caso, il prodotto diventa trasversale e molto versatile. Possiamo dire che le IGA rappresentano il gusto locale arricchendo entrambi i mondi, quello della birra e quello del vino, costituendo un ponte tra le due realtà e quindi un’occasione di conquista di nuovi consumatori per il settore birrario e quello vitivinicolo».
Segnalato trend positivo delle vendite di questa specialità birraria da parte di Birra Gjulia, che, essendo una delle realtà dell’azienda agricola Alturis, ha un forte legame con il mondo vinicolo e di conseguenza con le IGA, per le quali ha registrato un incremento di vendite costante nell’arco degli anni. «Non a caso le nostre due IGA sono ottenute col mosto d’uva di due grandi vitigni friulani: il Picolit per la Grecale, prodotta nell’anno di nascita del birrificio (2012) e il cui successo ci ha spinto a produrre nel 2015, con la Ribolla Gialla, la Ribò – spiega il titolare Marco Zorzettig. – Sono birre che sollecitano curiosità, sia negli appassionati di birra sia di vino, e rivelano il vantaggio di accompagnarsi bene in ristorazione. In entrambe le nostre IGA è presente una percentuale non elevata di mosto perchè riteniamo che esso debba semplicemente concorrere a migliorare e non debba sovrastare il gusto della birra. La Ribò, in particolar modo, è una birra che sposa le preferenze della maggior parte dei palati e trova largo consenso nel mondo femminile. Molto apprezzata per la sua versatilità negli abbinamenti, è riuscita a convincere anche i più scettici. Le caratteristiche che rendono le IGA Gjulia un prodotto molto appetibile per il consumatore sono principalmente la mancanza di acidità, la longevità e il legame con il mondo del vino. A proposito di longevità, interessante è l’evoluzione nel tempo di queste birre. Con l’invecchiamento, infatti, la componente vinosa si fa più percettibile».
E quello con la castagna
Quello della birra alla castagna è quasi considerato un italian style, dato che i castagni appaiono piuttosto diffusi nella fascia del nord Mediterraneo, con una buona concentrazione nelle aree boschive di media altitudine. «I tentativi di rendere ‘ufficiale’ questo stile in Italia sono innumerevoli, ma, a onor del vero, il primo produttore che ha portato la birra di castagne al grande consumo è stato un birrificio della Corsica, la Brasserie Pietra dei coniugi Sialelli, all’inizio degli anni 90 – indica Matteo Panero della Panero Group, che commercializza la birra Pietra in Italia. – La Corsica è un territorio molto ricco di castagneti e nella birra Pietra si trova da sempre il giusto equilibrio tra la farina di castagne e una birra d’eccezione prodotta nel rispetto dei metodi della tradizione». In generale il trend di consumo di questo tipo di birre è piuttosto contenuto tranne che per un prodotto più noto come Pietra. «Rimangono comunque delle specialità molto apprezzate dagli amanti di birra – specifica Matteo Panero. – Si possono consumare a tutto pasto, ottime con primi piatti e pizza. Sulla falsariga delle migliori tradizioni mediterranee, si abbinano perfettamente con formaggi e salumi serviti sia come antipasti sia come aperitivo».
Secondo una ricerca Mintel a livello globale, il 23% dei bevitori di birra nel 2020 ha bevuto una birra aromatizzata negli ultimi tre mesi rispetto al 17% del 2018.
Esplosioni creative
La creatività italiana in fatto di produzione brassicola è davvero notevole. Un esempio? Ecco una selezione (solo una selezione) delle birre del Birrificio Carrobiolo di Monza: Coffee Brett (11%), Imperial Stout brettata e prodotta con l’utilizzo di caffè in grani; BarriC Reloaded (8%), Imperial milk (Tripel, Sour Keller, IGA e OG1111) che hanno subito affinamenti per tempi diversi (fino a 5 anni) in contenitori differenti (botti di Barolo, fermentatori in acciaio, barriques di ciliegiolo); BarriC Super Farmhouse (8%), assemblaggio 60%-40% di Stoneislao barley wine maturata 12 mesi in anfora e farmhouse giovane; BarriC Stoneislao (11,5%), English Barley wine affinato per un anno in anfora fuori terra; BarriC Imperial Room (9,8%), Imperial milk stout maturata per 6 mesi in tonneaux di rum. Infine, se la birra è pane liquido, la ITA – Italian Tomato Ale (4,6%) con Datterini di Scicli in fermentazione al 33%, seguiti da basilico e origano usati a fine bollitura e in dry-spicing, è pizza liquida e, se tutti i birrai usano un fungo per fare la birra, il Saccharomyces, perché stupirsi di Porcini Imperial Stout (9,7%) con il Boletus Edulis, cioè il porcino.
Botaniche esotiche
Arriva dal birrificio olandese Lowlander una gamma di botanic beer dalle suggestioni esotiche nata da un’idea di Friedirik Kampman. Tutto inizia in una distilleria di gin nel Regno Unito, dove Kampan subisce il fascino dell’arte della distillazione. Di ritorno ad Amsterdam, Kampman decide di trasferire ciò che ha appreso nella lavorazione della birra, unendo i segreti delle spezie alle antiche tradizioni olandesi e arrivando in pochi anni a offrire una gamma di botanic beer, che ora Interbrau propone in esclusiva per il canale Horeca: 0.00% Wit, un’analcolica lavorata sulla base di scorza d’arancia e limone dal gusto rinfrescante con frizzanti note agrumate, Organic Blonde Ale con aggiunta di miele millefiori e buccia di limone bio che le dona grande freschezza, Ginger & Kaffir Lime Beer, ginger beer con gusto speziato molto caratteristico e innovativo, Indonesian Pale Ale con semi di coriandolo e infuso di tè bianco agrumata con sentori amari, Islander Tropical Ale con scorza d’arancia Curaçao e dragon fruit dolce e profumata e White Ale con scorza d’arancia Curaçao, fiori di sambuco e di camomilla fruttata e floreale.