Qualità e collaborazione: il futuro della produzione

Il successo delle  multinazionali del settore rimane ancorato alla standardizzazione qualitativa e alle economie di scala. Medie e piccole aziende devono puntare sulla specialità. Il tutto in un’ottica di collaborazione e diversificazione

di Giuliana Valcavi

Foto in copertina: Flavio Boero

Un passato come responsabile della qualità prima in Poretti e poi in Carlsberg Italia e un’attuale docenza presso enti formativi in ambito birrario fanno di Flavio Boero un ottimo conoscitore delle grandi realtà produttive birrarie italiane.

Il Mondo della Birra è nato proprio quando la birra in Italia ha iniziato a diffondersi con un certo successo. Parliamo di fine anni ’70/inizio anni ’80. Allora il ruolo dei grandi produttori del settore, Heineken, Peroni, Carlsberg, è stato cruciale. Senza di loro, probabilmente, non saremmo mai arrivati all’esplosione dei consumi degli anni seguenti. È d’accordo?

Sì sono parzialmente d’accordo perché è vero che i grandi produttori hanno investito e continuato a investire in Italia apportando capitali freschi, che hanno dato impulso dal punto di vista produttivo, soprattutto in termini qualitativi, ma occorre anche ricordare gli sforzi e le campagne pubblicitarie comuni iniziate negli anni ’60 con AssoBirra, quando a capo delle fabbriche di birra in Italia c’erano ancora le illustri famiglie, tutte italiane, dei Bassetti, Luciani, Peroni, Fuchs, Von Wuster, Whurer, Moretti, Thedy e Faranda (perdonatemi se mi sono dimenticato di qualcuno).  Ricordiamo che il successo di queste campagne è stato ripreso negli anni ’80 con il messaggio di Renzo Arbore “birra e sai cosa bevi”, che andava a sostituire il vecchio motto “Chi beve birra campa cent’anni”.

Guardiamo ora al futuro. Nonostante l’offerta dei birrifici artigianali si faccia strada già da qualche anno in maniera sempre più accentuata, la maggior quota dei consumi è fatta ancora dal prodotto industriale. Quale il ruolo della birra dei grandi brand in Italia prossimamente?

Sicuramente la birra artigianale apparsa sulla scena del mondo birrario all’inizio degli anni ’90 ed esplosa nel successivo millennio ha dato un nuovo impulso a un mercato che si stava adagiando sui propri allori. La maggior quota di consumi sarà ancora appannaggio del prodotto industriale, anche in virtù del rapporto qualità/prezzo, che è fortemente dipendente dalle economie di scala. Ma vedo maggiori opportunità per gli artigiani nella produzione di ‘specialità’. Questo lo hanno capito i produttori artigiani di successo, che hanno improntato le loro ricette a cavallo tra prodotti tradizionali e prodotti più creativi. A mio avviso il prodotto artigianale si deve guardare non dalla produzione industriale italiana, ma dall’importazione di specialità di altri paesi, europei e extraeuropei. Dai rapporti AssoBirra il rapporto export-import è abbondantemente sbilanciato a favore di quest’ultimo, che in trent’anni è triplicato passando da 2,4 mio hl a 7 mio hl. Quindi, a mio avviso il vero competitor delle birre artigianali sono le importazioni, che ovviamente rappresentano quasi esclusivamente specialità e birre premium.

Grandi produttori da un lato e birrifici artigianali dall’altro: quale il ruolo della media azienda del settore?

La vera media azienda del settore praticamente non si è formata, esistono solo alcuni artigiani e produttori non artigiani, almeno secondo la legislazione italiana, in quanto ricorrono alla pastorizzazione, che potrebbero rappresentare questa categoria, che per essere tale dovrebbe avere uno spirito corporativo. Le aziende padronali degli anni ’60 dialogavano tra di loro, attraverso le associazioni di settore, affrontando tematiche valide e importanti, anche scambi culturali e scientifici. Adesso questa volontà di collaborare non esiste, c’è molta competitività interna data dal fatto che la birra ha conquistato il suo spazio nei confronti del vino, il nemico comune che in passato ha favorito un’unione di intenti.

Quando parliamo di grandi produttori, ci si riferisce in genere a birre Lager, le più facili e beverine. Qualcosa sta cambiando ed è destinato a  cambiare in futuro?

Il grande successo della birra Lager nel mondo è iniziato a metà del ‘800 quando i grandi produttori mittel e nordeuropei hanno investito nella qualità. Questo è un paradigma che non può cambiare il successo o meno di nuovi prodotti: qualità = successo, non qualità= insuccesso.

Ma le specialità non hanno possibilità di rappresentare un segmento di crescita anche per la grande industria? Pensiamo per esempio alle non filtrate.

Questo discorso è iniziato con Carlsberg/Poretti nel 2015, ma la concorrenza con le artigianali è relativa perché queste non possono competere con le produzioni in grandi numeri delle industriali (economia di scala, sistemi logistici e distributivi, ecc.) e presentano caratteristiche produttive (non pastorizzazione, catena del freddo, ecc.) che le confinano in una nicchia, la quale può confrontarsi piuttosto con le specialità d’importazione, i loro veri competitor.

La media azienda non può  trovare una sua collocazione come produzione di private label?

Questo tipo di produzione, utilizzato dagli stabilimenti per abbassare i costi fissi, purtroppo non consente grandi margini. Si tratta di prodotti spesso venduti anche sottocosto, che entrano in diretta concorrenza con il brand aziendale. Inoltre, a fronte del prodotto artigianale, la private label ha iniziato a perdere sempre più terreno come prodotto di prezzo.

Infine, target, moda, momenti di consumo e distribuzione: cosa incide e inciderà sempre di più nella collocazione sul mercato della grande e media industria birraria italiana?

È difficile dirlo. Voglio solo far notare che piuttosto di una contrapposizione netta tra grandi industrie, medie realtà produttive e birrifici artigianali sarebbe utile una reale collaborazione di tutti gli attori del comparto valutando che i rispettivi prodotti sono destinati a consumi diversi.